Heinrich Mann: la ragione e il sonno che generano odio

Libri Il saggio scritto dal fratello maggiore di Thomas che affronta la deriva nazista sotto un piano culturale. Ecco come l’astio creativo tende a diventare mostruoso

Si è sempre “figli” di qualcuno, ma può anche capitare di essere “fratelli” di qualcuno. È il caso di Heinrich Mann, fratello maggiore di Thomas: più lucido, coerente e razionale del fratello minore nella valutazione degli eventi storici e dello “spirito del tempo”, ma sicuramente meno “artista” e di gran lunga meno dotato come narratore. Fatte salve un paio di eccezioni, che tuttavia confermano la regola.

“Civiltà” e “civilizzazione”

Le due eccezioni sono rappresentate dal romanzo “Professor Unrat” del 1905, che ha fornito lo spunto per il celebre film “L’angelo azzurro”, con Marlene Dietrich nel ruolo della baiadera Lola-Lola, e dall’altro grande romanzo “Il suddito”, terminato nel 1914 e pubblicato nel 1918, che rimane uno straordinario affondo nelle tenebre della cosiddetta “anima tedesca” e una perfetta disamina del rapporto tra chi detiene e chi subisce il potere, in ogni tempo e ogni luogo.

Il resto della sua produzione narrativa non è paragonabile alle meravigliose e inarrivabili figurazioni artistiche create dal fratello, di modo che Heinrich – esattamente come il diletto nipote Klaus, figlio secondogenito di Thomas, “il figlio scrittore del grandissimo scrittore” – si è per così dire cristallizzato nel canone letterario come “il fratello di Thomas Mann” oppure “il fratello, anch’egli scrittore, del grandissimo scrittore”. Il che significa: meno dotato di talento e molto meno conosciuto, oppure conosciuto per interposta persona (quella di Thomas, ovviamente) e in maniera indiretta, soprattutto a motivo del profondo e lacerante conflitto di idee – poi solo parzialmente ricomposto – che lo contrappose al fratello minore negli anni del primo conflitto mondiale.

Il dissidio tra i due fratelli era in sostanza il conflitto tra due differenti visioni della vita e della società. Thomas sosteneva la superiorità della “civiltà” tedesca, mentre Heinrich – formatosi culturalmente nel confronto con la grande letteratura francese, Zola in particolare – era un sostenitore della “civilizzazione” delle democrazie parlamentari europee. Soltanto in seguito, a partire dagli anni della Repubblica di Weimar, Thomas si allineò alle posizioni del fratello e diventò un fautore delle istanze democratiche, per quanto sempre declinate con una specifica attenzione per la tradizione culturale germanica.

Compimento di un percorso

Il concreto divenire storico e la giusta distanza critica permettono di affermare che la ragione stava totalmente dalla parte di Heinrich, anche in termini di coerenza, rigore argomentativo, spirito dialettico e approccio dubitoso (detto un po’ schematicamente: più illuministico/francese/razionale che romantico/tedesco/irrazionale). Non deve stupire, quindi, che circa un decennio dopo Heinrich fu molto più attento del fratello nel cogliere fin dall’inizio, con notevole preveggenza, il gravissimo pericolo costituito dall’ascesa al potere del nazismo.

La condanna definitiva di Thomas nei confronti della canaglia hitleriana arrivò con colpevole ritardo, nel 1936, mentre il fratello già tre anni prima aveva dato alle stampe un saggio che nel suo insieme si configura come un’implacabile analisi dei metodi con cui il nazismo si era impadronito del potere. Si tratta di un testo che l’editoria italiana ha sempre stranamente sottovalutato e per un lungo periodo è stato proposto solo per estratti, fino a quando in tempi più recenti le edizioni L’orma lo hanno finalmente pubblicato nella sua interezza: il saggio si intitola “L’odio - Come il nazismo ha degradato all’intelligenza” e costituisce l’apice dell’intera produzione saggistica di Heinrich.

“L’odio” porta peraltro a compimento il percorso iniziato coi due romanzi “Professor Unrat” e “Il suddito”, anch’essi recentemente riproposti in versione italiana. Le tre opere possono insomma essere lette come i pannelli di una trilogia: se “Tonio Kröger”, “Tristano” e “La morte a Venezia” di Thomas costituiscono la cosiddetta “trilogia dell’artista”, i due romanzi e il saggio di Heinrich costituiscono quella che si potrebbe definire la “trilogia del potere e dell’odio”. O meglio: dell’odio come strumento del potere. Il suo nume tutelare Émile Zola, in un lungo saggio intitolato significativamente “I miei odi” e pubblicato a soli 26 anni, nel 1866, aveva infatti scritto che l’odio è una grande forza propulsiva e perfino creativa, a patto che non si trasformi in sterile risentimento e in violenza: «L’odio è santo. È l’indignazione dei cuori forti e potenti, lo sdegno militante di chi si arrabbia per la mediocrità e l’idiozia. Se oggi valgo qualcosa, è perché sono solo e perché odio».

Il trionfo dell’irrazionale

È lecito pensare che Heinrich Mann avesse presenti queste parole durante la stesura del saggio, perché “L’odio” è tutto orchestrato sull’analisi di un sentimento che sarebbe potenzialmente creativo e produttivo ma tende fatalmente a pervertirsi, fino ad assumere connotazioni mostruose quando diventa un’abietta e abominevole visione del mondo e viene utilizzato strumentalmente, facendo leva sull’irrazionalità, come appunto accaduto nella Germania nazista. Heinrich lo spiega con estrema chiarezza al termine di un’approfondita ricostruzione della storia tedesca dal 1870 in poi: «L’odio non solo come mezzo, ma come unica ragion d’essere di un potente sommovimento popolare; è questa l’idea escogitata dal grande signor Hitler. Mai prima d’ora si era visto un popolo tanto pieno d’odio verso i propri connazionali, verso i più umili, i deboli e i poveri, e allo stesso tempo anche rivolto contro coloro che, isolati, hanno a cuore il suo bene e, per senso di giustizia, si schierano dalla parte degli oppressi».

Secondo Heinrich, il trionfo dell’odio nasce dalla scissione tra realtà e pensiero, dall’irrazionale che soffoca il razionale e crea i presupposti per la dittatura, perché «la dittatura è quella particolare condizione delle strutture sociali in cui pensiero e realtà non sanno più nulla l’uno dell’altra». Un secolo dopo, i due grandi romanzi e le considerazioni del “fratello maggiore del grandissimo scrittore” sull’odio e le scaturigini del nazismo meritano una lettura e una riflessione particolarmente attenta. Non solo perché contengono un monito indirizzato alle «generazioni future», alle quali Heinrich intende rivolgersi col «linguaggio della verità». Ma soprattutto – e la cronaca non manca di fornirne continue e disperanti conferme – perché «l’immondo grembo» dell’odio e dei totalitarismi è «sempre fecondo», come ricordava Bertolt Brecht.

Il pensiero e la realtà sanno ancora qualcosa l’uno dell’altra? La ragione è ancora in grado di illuminare e quindi dissipare le tenebre dell’odio? I terribili interrogativi di Heinrich Mann ci raggiungono da una vicinissima e vibrante lontananza.

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