“Horcynus Orca”: un dolce ritorno dove il mare è mare

Libri L’omaggio per i cinquant’anni dalla prima edizione del testo di Stefano D’Arrigo, oggi riproposto da Rizzoli. Un narratore “totale” che indaga il senso della realtà

Lo si è definito in vari modi, con paragoni piuttosto impegnativi ma del tutto plausibili e non privi di un sostanziale fondo di verità: la versione italiana dell’“Ulisse” di Joyce, una rilettura in chiave moderna dell’“Inferno” dantesco, una continuazione della “discesa alle Madri” del “Faust” di Goethe e la “Morte a Venezia” di Thomas Mann, la ripresa di temi e suggestioni che risalgono all’“Odissea” di Omero, un’“opera-mondo” e una riflessione inesorabile sul compenetrarsi di vita e morte, su tutto quanto sostanzia l’esistenza ma la irrigidisce e tutto ciò che invece la libera, ma insieme la dissolve.

La realtà perduta

Comunque sia, la ristampa del capolavoro di Stefano D’Arrigo, il monumentale romanzo “Horcynus Orca”, che proprio in questo periodo compie il mezzo secolo di vita (annunciato per oltre un decennio, era uscito nella primavera del 1975 per i tipi di Mondadori) e per l’occasione torna nelle librerie in un volume della “Bur” Rizzoli, ripropone vecchie ma in fondo sempre nuove questioni relative all’essenza della realtà. D’Arrigo è stato infatti l’ultimo grande narratore “totale”, che facendo leva su straordinarie credenziali stilistiche (neologismi, marcature dialettali, impensati costrutti sintattici, forzature semantiche) ha posto in maniera radicale la questione inaugurata dai grandi scettici della prima metà del Novecento: nell’epoca della tecnologia e della frammentazione delle conoscenze, la realtà si può circoscrivere soltanto in maniera molto vaga e dubitosa. E comunque sempre tra virgolette: la “realtà”, non la realtà.

È la medesima questione che si profila negli ultimi versi della celebre poesia “Non chiederci la parola…” di Eugenio Montale: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche sorta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Il che significa che ormai risulta inevitabile definirsi più per sottrazione che per addizione, perché in una realtà disgregata non è più possibile una biografia lineare e coerente. Ma il diritto di primogenitura, se così lo si può circoscrivere, spetta alla grande cultura austriaca che ha rimodellato il tramonto della monarchia asburgica nella metafora di un’intera civiltà giunta alla fine e destinata a sopravvivere nell’astrazione, nelle vuote e morte forme della mera esteriorità, nella mancanza di un senso e un valore fondante.

Due tra i massimi esponenti di quella grande cultura, Hermann Broch e Robert Musil, hanno coltivato nello specifico la meravigliosa quanto fallimentare utopia del romanzo “totale”, che avrebbe dovuto risolvere nella ferrea e coerente unità della struttura romanzesca la multiforme e sfuggente complessità del reale.

La parola ineffabile

Broch, in particolare, ha espresso la consapevolezza del fallimento nelle righe finali del tardo romanzo “La morte di Virgilio”, favoleggiando dell’esistenza di una parola che «si librava al di sopra del tutto, al di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile», simile a «un mare sospeso, un fuoco sospeso, con la pesantezza del mare, con la leggerezza del mare, e tuttavia sempre parola». Una parola, però, «incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del linguaggio». Ma soprattutto perché, come lasciano intendere le parole conclusive di “Horcynus Orca”: «Dentro, più dentro, dove il mare è mare», ci sono soltanto il nulla, la negazione, la morte, il ritorno all’origine e all’indistinto.

Ogni luogo può diventare il centro del mondo, quando viene reinventato nella narrazione. Nei romanzi “totali” di Musil e Broch il centro del mondo è costituito dalla Vienna del tramonto asburgico, mentre nel romanzo “totale” di D’Arrigo il centro del mondo (e la cifra non meno simbolica della fine di un’intera civiltà) è costituito dallo Stretto di Messina, ribattezzato “Scill’e Cariddi”, lo scenario all’interno del quale compaiono dapprima i delfini – detti anche “fere”: le due versioni preliminari del romanzo si intitolano “La testa del delfino” e “I fatti della fera” – e da ultimo l’“Orcaferone”, l’“Horcynus Orca” della terza e definitiva versione, il mostro marino che nello snodo decisivo della narrazione esce dalle acque dello Stretto e porta la morte. È all’interno di un simile scenario che D’Arrigo ripropone l’antichissimo tema del ritorno, già presente nell’“Odissea”. Ritorno verso cosa, e verso dove?

Raccontare la trama e i contenuti di un romanzo “totale” e corale che supera le milleduecento pagine è praticamente impossibile, soprattutto in considerazione del fatto che “Horcynus Orca” – in questo, davvero molto simile all’“Ulisse” di Joyce e all’“Uomo senza qualità” di Musil – è costituito da un insieme di narrazioni secondarie che procedono per cerchi concentrici e rimandano ma non sempre afferiscono direttamente alla narrazione principale.

Viaggio senza fine

Il nucleo è tuttavia rappresentato dalla storia di un reduce, ’Ndrja Cambrìa, un marinaio dell’ormai ex Regia Marina che nell’autunno 1943, dopo l’Armistizio, torna a Cariddi, il suo villaggio natale sulla sponda siciliana dello Stretto di Messina. Ma il suo ritorno – come quello di Rip van Winkle nell’omonimo racconto di Washington Irving – non è un ritorno a casa e quindi un ritrovamento di orizzonti noti e familiari, perché ogni passo lo porta nel cuore di tenebra di una “realtà” corrosa dalla salsedine del tempo, sgretolata e dissolta sotto il peso della guerra.

La terra non garantisce alcun radicamento, il paesaggio è uno sfondo astratto: i pescatori, privati del loro mestiere, sono diventati “spiaggiatori”, spinti agli estremi margini dell’esistenza, mentre il mare è infestato dalle “fere” (i delfini che distruggono le reti) e dominato dall’“Orcaferone”, creatura leggendaria che incarna la morte come presenza oscura e palpitante, quasi un’ombra che segue ’Ndrja Cambrìa per oltre mille pagine e lo raggiunge nelle ultime righe.

D’Arrigo racconta la sua vicenda in virtù di un prodigioso flusso verbale e figurativo che intreccia mito e storia, parola scritta e oralità, dialetto e poesia (le scaturigini dell’opera sono rinvenibili nella raccolta di liriche “Codice siciliano”). Ogni onda marina, ogni eco prodotta dalle voci dei personaggi restituiscono la tensione tra la vita e la sua negazione: la lingua stessa – col suo ritmo sistolico/diastolico di contrazione e rilassamento, che evoca il ciclo cardiaco e rimanda al respiro del mare – si gonfia e ritrae in continuazione, tracciando le coordinate di un viaggio senza una fine né un fine, che riflette il rapporto ineludibile quanto insondabile dell’uomo col tempo, il linguaggio e la conoscenza. E il cui fatale approdo, da Omero in poi, è sempre lo stesso: «Dentro, più dentro, dove il mare è mare».

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