(Foto di © Eredi di Luigi Ghirri)
Novità Tutte le lezioni del maestro dell’Ottava Arte riproposte da Quodlibet nella collana “Unlimited”. Cosa significa viaggiare, tra il reale e il metaforico
Tra le tante domande che Luigi Ghirri ha lasciato in eredità con la sua vastissima opera e le riflessioni contenute nelle “Lezioni di fotografia”, trascritte e pubblicate da Quodlibet nel 2010 e ora riproposte dallo stesso editore nella collana “Unlimited”, ce ne sono alcune che spiccano con particolare evidenza. Cosa significa “viaggiare”, in senso reale e metaforico? Cosa si vede veramente nel corso del “viaggio”? Dove passa il confine tra la “realtà” e la reinvenzione operata dallo sguardo fotografico? E infine: cosa si può contrapporre alla celebre quanto perentoria (e opinabile) affermazione di Susan Sontag? «La conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero come antologia di immagini».
La pubblicazione del volume “Viaggio in Italia”, forse il più ambizioso tra i tanti progetti di Ghirri, sicuramente uno dei più importanti punti di snodo nella storia della fotografia italiana contemporanea, riproposto lo scorso anno sempre da Quodlibet in occasione dei quattro decenni dalla prima edizione, ha rinnovato e per taluni versi attualizzato simili domande, perché si ha sempre più la tendenza a considerare acquisiti una volta per tutte concetti come “realtà”, “visione” e “viaggio”.
L’opera fotografica di Ghirri propone infatti una forma di approccio ai dati del reale che mette in dubbio non solo la logica raziocinante, ma anche talune ipocrite e indiscusse certezze umanistiche, dove c’è sempre un io regolatore e ordinatore. Il suo amico e compagno di scorribande padane Gianni Celati, parlando della cosiddetta “scrittura in esposizione” dell’amatissimo Stendhal e del flusso di immagini che sostanziano la struttura narrativa de “La Certosa di Parma” (ma sono considerazioni che dicono moltissimo anche di Ghirri e la sua concezione della fotografia) ha osservato che l’autentica conoscenza non è mai «un sapere composto di nozioni che si capitalizzano per far carriera in qualche settore». Esattamente come i trasporti immaginativi di Stendhal, anche la realtà osservata e reinventata nelle fotografie di Ghirri si pone quindi agli antipodi di «tutti i totalitarismi moderni, che vogliono farci dimenticare le incertezze su noi stessi; ma proprio perché predicano la felicità, ci rendono ancora più estranei al mondo così com’è». Il che è semplicemente verissimo.
Si tratta peraltro di una verità espressa con estrema chiarezza dallo stesso Ghirri in una delle sue lezioni: «Credo che dietro i disastri dell’ambiente vi sia una disaffezione che l’uomo ha sviluppato nei confronti del suo ambiente negli ultimi trenta o quarant’anni, alla quale ha corrisposto una fondamentale incapacità di relazionarsi con l’ambiente attraverso la rappresentazione. Quindi il recupero della rappresentazione visiva come strumento di relazione col mondo, di rapporto con l’ambiente, può avere un grande peso culturale e una grande efficacia».
È una dichiarazione di poetica (poetica della visione, si potrebbe dire) sulla quale Ghirri insiste a varie riprese nelle lezioni. Ma non solo: è una poetica che spiega tutta la sua opera e restituisce il senso del progetto culminato alcuni anni prima nel “Viaggio in Italia”. Relazionarsi tramite la rappresentazione con l’ambiente (inteso in senso ampio come “paesaggio”) significa guardare il mondo con occhi diversi, percepirlo come inesauribile fonte di visioni e incantamenti, considerare il “viaggio”, nelle sue varie forme, come ricerca e possibilità di attivare una conoscenza quale avventura del pensiero e dello sguardo, lontanissima da tutte le vanaglorie umanistiche e le pretese di aver capito qualcosa in generale del mondo esterno.
È precisamente ciò che Goethe, il viaggiatore italiano per eccellenza, aveva definito la “terza realtà”, «affascinante proprio nella sua fittizia esistenza». In questo senso, “trovare” significa sempre “ritrovare” qualcosa si è già trovato o comunque è già presente nell’immaginazione.
Le tredici lezioni, tenute da Ghirri tra il gennaio 1989 e il giugno 1990 all’”Università del Progetto” di Reggio Emilia (una scuola di design e comunicazione che nel frattempo ha purtroppo cessato le attività), toccano vari temi (l’esposizione, la soglia, la trasparenza, solo per citarne alcuni) ma giungono sempre alla medesima conclusione: un semplice “luogo” diventa un “paesaggio” solo ed unicamente quando è scritto – nel senso di visto, percepito, vissuto – in una lingua che si conosce, perché in caso contrario rimane un “non luogo” anonimo e incomprensibile. Il mondo attuale ne è pieno, esattamente come è pieno di “location” che non dicono nulla all’immaginazione: panorami frigidi, sfondi astratti sui quali è impossibile proiettare il pensiero, “non luoghi” dove non si ha «la sensazione di essere al mondo» (sono parole di Ghirri). “Non luoghi”, soprattutto, dove ha poco senso vivere, perché non ha alcun senso morire.
Ai “non luoghi” è necessario rispondere col “niente di speciale”, che Ghirri ha proposto nel solco del leggendario e pioneristico progetto “Un paese” di Cesare Zavattini e del fotografo americano Paul Strand, confluito nel 1955 nell’omonimo libro fotografico (uno dei primi esempi di “letteratura per immagini” e ideale precursore del “Viaggio in Italia”) dedicato al luogo natale di Zavattini, la cittadina di Luzzara nella zona di Reggio Emilia.
Ghirri è riuscito da parte sua a comunicare l’idea del paesaggio inteso come un sistema di risorse impensate, minime, inappariscenti e quotidiane, lontane non solo dal sensazionalismo della cronaca, ma anche dai panorami dolciastri e improbabili delle cartoline turistiche (oggi diremmo forse dall’immancabile scatto a corredo dell’immancabile e inutilissimo “post” su qualche social network). Nelle lezioni tenute a Reggio Emilia si profila l’idea della fotografia – di una certa fotografia – non già come semplice e banale “antologia di immagini”, ma piuttosto come forma della conoscenza, perfino come abito morale e costume dell’intelligenza.
Le sue considerazioni, lontanissime (allora come oggi) dai frasari d’attualità, rimangono insomma un invito a guardare il mondo nel suo “niente di speciale”, così com’è, con altri occhi che non siano quelli dell’ottimismo aziendale, della cementificazione selvaggia, delle ubriacature pubblicitarie e della cronaca fine a se stessa. Un’utopia? Può darsi, ma le sue fotografie ci ricordano che l’utopia è forse l’unico modo plausibile di essere al mondo. Come ha scritto Celati nel ricordo biografico che chiude il volume, sono fotografie che «ci insegnano che il mondo prende forma perché qualcuno lo osserva. Prende forma quando qualcuno sente il desiderio di contemplarlo, non di invaderlo o massacrarlo per farsi strada».
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