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Domenica 18 Maggio 2025
«Lo sport è sempre politico: sa educare alla sconfitta»
L’intervista a Mauro Berruto, ex ct della Nazionale di pallavolo maschile, oggi deputato della Repubblica. In libreria con il suo nuovo saggio, ha chiesto in Parlamento il riconoscimento dello sport nella Costituzione
Lo sport influenza un processo politico che può esaltare e idealizzare o, viceversa, denigrare e disprezzare. Definendo appartenenze, confini e limiti. Ispirando persone e popoli. Cambiando il mondo. Deviando la Storia. È la tesi che solca il saggio “Lo sport al potere” (add editore) di Mauro Berruto. La Provincia ha raggiunto l’autore.
Mauro Berruto, nel libro indaga la pratica sportiva anche come linguaggio universale, ponte per la pace, strumento democratico di partecipazione. Affermando che «non c’è sport senza politica, non c’è politica senza sport». Assomiglia a un’iperbole?
No, piuttosto un dato oggettivo. Lo sport è politica. Lo è sempre stato. Era un fatto politico duemilaottocento anni fa, quando i Giochi Olimpici nacquero nell’antica Grecia. È stato così allorché Pierre de Coubertin li ha rilanciati nella modernità. Ed è così oggi. Pure la storia del calcio è legata in maniera indissolubile all’abbraccio tra sport e politica: talvolta è stato un abbraccio mortifero, talaltra una carezza. Il libro smentisce la leggenda metropolitana per cui sport e politica siano ambiti distanti e differenti. Lo sport orienta la politica e, simmetricamente, la politica influenza lo sport.
Riavvolgiamo il nastro della storia e rimontiamo ai Giochi Olimpici dell’antica Grecia, che avevano le loro radici nel mito, nella religione, nella politica. Quali valori promuoveva l’Olimpismo? Cosa significava trionfare a Olimpia? Perché agonismo e virtù erano centrali nel canone narrativo e nel funzionamento della società?
Ai Giochi contava vincere. La vittoria a Olimpia era cantata dai grandi poeti; veniva riconosciuta dai governi delle poleis al pari di uno strumento di affermazione e di identità. Lo sport nasce dalla triangolazione fra mito, religione e politica. Tocca il culmine all’incrocio di agón, areté e agorà. Celebra la competizione e il duello. Trionfare a Olimpia equivale a raggiungere l’ideale assoluto di perfezione fisica e morale. L’Olimpismo concilia l’affermazione delle identità individuali (la singola polis) e il cosmopolitismo (le poleis si riconoscevano nel terreno comune dei Giochi). Un miracolo in una società perennemente in guerra.
Cosa prevedeva la tregua olimpica?
Non arrestava le guerre; neppure la Guerra del Peloponneso si fermò. Ma faceva di più. La tregua olimpica, che era sacra, permetteva agli atleti e agli spettatori (nell’ordine di 50mila persone) di raggiungere incolumi Olimpia. In quel modo, Olimpia diventava teatro di diplomazia. C’erano negoziati e discussioni orientati alla soluzione dei conflitti.
Quale eredità hanno lasciato allo sport moderno i Giochi antichi?
La competizione sportiva come linguaggio universale che abbatte barriere tra i popoli e promuove un ideale di pace e unità. Il gesto atletico alla stregua di un mezzo per misurare la forza fisica; di un elemento essenziale per la formazione dell’identità, il consolidamento del tessuto sociale e la coesione culturale.
Lo sport torna in auge agli sgoccioli dell’Ottocento. I Giochi rinascono su impulso del barone Pierre de Coubertin. Figura celebrata prima, condannata alla damnatio memoriae poi.
Sì, è successo clamorosamente a Parigi, nel 2024; poiché i Giochi moderni nascono da un illuminato intervento alla Sorbona del conte de Coubertin, nel 1894. Aristocratico, intellettuale e pedagogo, è stato un uomo del suo tempo; con un profilo controverso. Da un lato: una certa tendenza a flirtare con opinioni colonialiste e suprematiste; fermo nella fiera opposizione della partecipazione femminile alle gare (al limite della misoginia). Dall’altro: la passione sincera per le Olimpiadi e l’indiscusso merito di averle rifondate.
«Lo sport non è un mondo perfetto e ideale. È reale con le sue luci e le sue ombre», scrive. Una didascalia del Novecento.
Lungo questo secolo - funestato dalle dittature - lo sport sprofonda nella vergogna dell’odio razziale, dell’eugenetica, del furore ideologico. Asservito alla propaganda di regime; con financo gli stadi scempiati in teatri di tortura. Allo stesso tempo, assurge a simbolo di libertà e strumento di lotta per la rivendicazione di diritti umani, civili e sociali. Due esempi eloquenti? I Giochi di Città del Messico, 1968, e l’iconico podio, guantato di nero, di Tommie Smith e John Carlos: un manifesto della potenza ispiratrice dello sport. I Mondiali di Rugby voluti da Nelson Mandela nel 1995, con l’impresa degli Springboks che aiuta il Sudafrica a ricucire le ferite dell’apartheid.
In piena Guerra Fredda, il medagliere assume una valenza enorme. Corretto? Tra esasperazioni, boicottaggi e doping di Stato, il medagliere olimpico diventa metafora geopolitica, termometro del prestigio nazionale, spartito di soft-power. Per la sua egemonia, rivaleggiano Stati Uniti, URSS, Cina e Germania Est.
Siamo entrati nell’età dello “sportwashing”. Che cos’è? È un neologismo coniato dall’attivista Rebecca Vincent. Significa ripulire l’immagine e lavare la coscienza di un Paese attraverso lo sport. Vincent si riferiva alla sua esperienza a Baku, in Azerbaigian, dove i Giochi Europei del 2015, la Formula 1 e la pallavolo sono stati funzionali a edulcorare la reputazione del Paese agli occhi del mondo. Un altro, eclatante caso sono stati i Mondiali in Qatar del 2022. Messi, nella serata più desiderata della carriera, quando solleva la Coppa non si scrolla dalle spalle il bisht, il mantello nero-trasparente tradizionale del mondo arabo e riservato a personaggi speciali, infilatogli dall’Emiro Al-Thani.
Nel nostro Paese, lo sport è assurto al rango di diritto costituzionale.
Con l’approvazione all’unanimità del settimo comma dell’articolo 33 della Costituzione, il 20 settembre 2023, la Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme. È un punto di non ritorno, un atto fortemente simbolico, una conquista. Tuttavia, siamo in grave ritardo sulla implementazione di politiche pubbliche che traducano questi valori nella vita quotidiana.
Chiosando: lo sport insegna più a vincere o a perdere?
Insegna a perdere. Perché nello sport si perde molto più di quanto si vinca: può suonare stonato nella società della prestazione. Lo sport, a qualsisia livello, testimonia la bellezza della fatica e costringe a fare i conti con la sconfitta. Chi vince sa che in qualsiasi momento potrà perdere. E chi perde sa che, faticando e migliorando, potrà vincere.
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