«Quel genio di Ligabue: tigre in un mondo di serpi»

L’intervista allo scrittore Carlo Vulpio in occasione dei sessant’anni dalla morte di un artista a lungo emarginato. «Le bestie che dipinge sono un grido di dolore, i fantasmi nella sua testa. Nemmeno Montanelli ne capì l’estro»

Delle volte occorre gridare per attirare l’attenzione. “Grido, dunque sono” scriveva Reinaldo Arenas. Ed è stato così per tutti, fin dall’inizio, quando usciti dal liquido amniotico il primo grido ha annunciato alla madre che il parto era compiuto, la vita era cominciata.

Antonio Ligabue non ha mai smesso di gridare. Lo ha fatto per difendersi da chi lo aveva emarginato, abbandonato, deriso. Un talento che non ha avuto bisogno di una terra generosa che lo valorizzasse per dipingere. È stato da subito un animo irruento e puro, che ha scelto la natura per esprimersi, optando di farsi tutt’uno con essa per comprenderla fino in fondo. Puro non è l’animo che è rimasto sempre nascosto, protetto, che è stato sottratto all’errore, che non è stato contaminato da nulla, che non si è mai sporcato. Puro al contrario è colui che ha vissuto, che ha toccato tutto, che si è contaminato. Ligabue ha mostrato i denti della tigre per gridare il suo messaggio. “Giudicatemi per quello che faccio non per quello che sono” sembrano suggerirci le sue opere. “E comunque difenderò sempre quello che sono”.

Per approfondire questa importante figura, a sessant’anni dalla morte, abbiamo incontrato lo scrittore e giornalista del “Corriere della Sera” Carlo Vulpio, che ha dedicato all’artista il libro “Il genio infelice. Il romanzo della vita di Antonio Ligabue”.

Vulpio, partiamo dal nome. Perché proprio Ligabue?

Si tratta di una storpiatura per disconoscere il cognome “Laccabue”, che apparteneva a uno dei due uomini che lo adottarono. Non conobbe mai il suo padre biologico; per tutta la vita si ribellò ai comandamenti di ordine e disciplina. La scelta di cambiare era dunque un modo per distinguersi.

Come fu la sua infanzia?

Era nato a Zurigo da una ragazza madre di Belluno, venne adottato da due uomini e da ciascuno di essi abbandonato per il suo carattere fragile e orgogliosamente solitario. Era creduto matto, uno stigma difficile da annullare. Veniva chiamato “Toni al mat”, ma in realtà era epilettico. Un tempo l’epilessia non era considerata una malattia, piuttosto si pensava che Ligabue subisse una forma di possessione, come se il male oscuro risiedette dentro di lui, e per questo venne mandato in manicomio, tra i primi in Italia a subire l’elettroshock. Tutte queste circostanze avrebbero annientato chiunque. Non so come abbia fatto a sopravvivere…

Quando invece ebbe consapevolezza delle sue doti artistiche?

Tutti gli autodidatti e i geni non sanno di esserlo. Lo sono e basta. Ligabue è stato per moltissimi anni emarginato, povero e deriso: le bestie che disegna sono gli uomini che lo aggrediscono. Si accorge di avere un seguito quando iniziano a pagargli i quadri che realizza, gli stessi che fino a qualche anno prima barattava con un piatto di minestra. Sicuramente fu molto importante l’incontro con Renato Mazzacurati, che andava a trovarlo lungo il Po e gli consigliò di dipingere ad olio. In ogni caso, la piena coscienza della sua arte arrivò molto tardi, già in età adulta.

Ligabue è un ribelle, nella vita e nell’arte. È estraneo alle categorie…

È unico proprio perché non si può accostare a nessuna corrente. Qualcuno lo ha associato ai naïf, eppure, salvo i colori vivaci, non ha nulla da condividere con quel mondo, spesso caratterizzato da quiete e serenità. Ligabue è un’artista assoluto, portato ad esprimersi non solo con la pittura, ma anche con sculture e disegni. L’esser stato autodidatta lo ha portato a questa estraneità dalle etichette: i colori sono irriguardosi, potenti, così come le immagini non hanno proporzioni. È un’eruzione vulcanica. Ecco allora la predominanza della tigre, la belva delle belve, più ancora dei leoni. Sono i fantasmi nella sua testa, a cui dà un aspetto. E non sempre la tigre è quella che vince nello scontro che raffigura, perché spesso viene stritolata da un serpente o punta da un insetto. Non è sempre chiaro chi aggredisce chi, e chi deve difendersi da chi.

Si può dire che abbia scavalcato anche la mediazione della critica?

La consacrazione è difficile che avvenga quando uno non gode dei favori della critica, che un tempo aveva lo stesso valore che oggi daremmo alla tv, ai social e più in generale ai mezzi di comunicazione di massa. Nemmeno un giornalista come Indro Montanelli capì Ligabue. Nel commentare una sua mostra a Roma, si concentrò solo sulla sua figura bizzarra, prendendolo quasi in giro con un articolo che oggi definiremmo “di colore”. Ma i quadri erano gli elementi per capirlo davvero.

Tecnica e soggetti. La natura è sempre al centro, spesso con animali che esprimono l’urlo della foresta…

È un urlo di dolore, più che di rabbia o di vendetta. Quello dell’animo ferito, della persona aggredita. Nel libro raccolgo la testimonianza di Augusto Agosta Tota, uno di quei ragazzini che spiava Ligabue mentre dipingeva rinchiuso: racconta che, talmente l’artista si immedesimava nel rappresentare gli animali, nell’atto di metterli sulla tela ne riproduceva i versi. Tota poi sarà una figura importante per l’artista: ne conquistò la fiducia e lo aiutò a vendere i suoi quadri. Poi, dopo la sua morte, fondò l’Archivio Antonio Ligabue a Parma. Ha restituito al pittore tutto quello che la vita gli aveva tolto.

Cosa dire invece dei numerosi autoritratti?

Sono un’introspezione. Molti definiscono Ligabue il Van Gogh italiano, io rilancio e dico che Van Gogh è il Ligabue dei Paesi Bassi. Effettivamente c’è una grande affinità dal punto di vista pittorico e biografico tra i due, soprattutto nella capacità di portare in pittura, senza mediazioni, quello che sentivano dentro. Ligabue pratica l’autoritratto insistentemente; andava spesso in giro con uno specchio e camminava lungo il fiume facendo delle smorfie strane. Per lui quello era studio.Un’auto osservazione, forse per apprezzare sé stesso. In fondo, nessuno avrebbe fatto un ritratto su di lui.

A 60 anni dalla morte, cosa può dirci ancora la sua opera?

Ci dice ancora troppo poco rispetto a quello che ancora potrà dirci. La grandezza di Ligabue sta nell’unicità. Penso non sia un caso che i suoi dipinti piacciano molto ai bambini; perché sono autentici, innocenti, non necessitano di sovrastrutture per essere spiegati. Inquietano, innamorano, spaventano, inteneriscono. L’assoluta spontaneità nei soggetti e nei colori lo rendono immediato, primitivo.

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