Storie dentro la guerra. Milani:«Non pensavo tutto questo»

L’intervista a Elia Milani, tra i primi giornalisti a raggiungere i luoghi del massacro del conflitto in Medio Oriente. «Il mio nome avrebbe potuto darmi problemi, ma conoscere l’arabo mi ha aiutato. Chi sperava nella pace ha perso»

Il giornalista Elia Milani è l’ospite dell’ultimo appuntamento della rassegna “Il bello dell’Orrido”, che si terrà sabato 13 dicembre alle ore 18 al Cinema di Bellano. Per otto anni, in collegamento da Gerusalemme, Milani ha raccontato al pubblico italiano il conflitto israelo-palestinese. Biellese di origine, dopo una laurea specialistica in Antropologia culturale si è trasferito a Milano per lavorare a Mediaset, esordendo a Mattino Cinque, Matrix e Terra, fino ad assumere il ruolo di corrispondente dal Medio Oriente, incarico che ha ricoperto dal 2017 al 2025.

È stato tra i primi giornalisti a raggiungere il luogo del massacro del festival musicale Supernova del 7 ottobre 2023. Con Armando Besio, dialogherà sul suo libro “Voci dal confine” (Mondadori, 2025) che raccoglie l’esperienza degli anni trascorsi a Gerusalemme e restituisce uno spaccato autentico di un’umanità ostinata e sorprendente, un mosaico di storie che illuminano un territorio lacerato, ma ancora capace di immaginare un futuro di pace.

Quando è stato mandato a Gerusalemme come inviato, nel 2017, pensava di rimanerci per otto anni?

Non pensavo di rimanere così tanto. Tutto è avvenuto in maniera abbastanza imprevedibile. Il 13 novembre 2015 accadeva la tragedia del Bataclan a Parigi. Io ero in onda con la trasmissione “Quarto grado”. In una pausa mi chiamò un amico da Parigi e mi avvertì che stavano sparando e c’era un grande caos. Lo dissi al responsabile della trasmissione e aprimmo subito una finestra su Parigi. In quei momenti cercavamo sui social informazioni e molte di queste, tra cui le rivendicazioni dell’attentato, erano in arabo. Ho cominciato a tradurle e così si sono accorti che sapevo l’arabo. Sono stato due anni in Europa e poi sono arrivato a Gerusalemme.

A Gerusalemme scopre subito che non c’è nulla di facile e che anche la scelta del quartiere in cui vivere può essere interpretata politicamente. Come mai?

Il rischio c’era, perché sapere dove uno abita può definire chi effettivamente sia. L’ho scoperto pian piano, ma poi che conta è quello che uno è veramente.

Il suo nome, Elia, le ha creato problemi?

Avrebbe potuto se non avessi parlato arabo. Poi quando scoprivano che ero italiano e cristiano i sospetti sparivano.

Nel suo libro lei cita esempi di israeliani e palestinesi che nonostante il 7 ottobre, continuano a coltivare la loro amicizia. Sono casi isolati?

Sono esempi veri ma residuali. Una convivenza è possibile, ma non c’è la volontà politica

Ci racconti dell’amicizia tra Ruth e Rana, un’israeliana e una palestinese che continuano a parlarsi anche dopo le tragedie?

Ruth e Rana lavorano come traduttrici online e sono nate entrambe nel 1988. Si sono conosciute prima del 7 ottobre: sono diventate amiche e continuano ad esserlo. Ruth ha lasciato Israele, in pieno disaccordo con le politiche militari del governo Netanyahu, e se n’è andata in Bulgaria: le è bastato comprare un biglietto e prendere un aereo. Per Rana e la sua famiglia lasciare Gaza è stata, invece, un’odissea. Alla fine, ce l’hanno fatta ed ora sono in Egitto. L’amicizia tra Ruth e Rana è più salda di ogni guerra e sono riuscite anche ad incontrarsi al Cairo.

Si può essere amici anche se si è su due fronti opposti di una guerra. Ci parla di Abdullah e Roni?

Abdullah ha sessant’anni. È nato a Shabuura, quartiere di Rafah. Nel sud di Gaza ha vissuto tutta la sua vita. La sua infanzia, e quella dei suoi nove figli, è trascorsa giocando tra le strade del quartiere, distante solo settecento metri dal valico che porta in Egitto. Abdullah è arabo ma parla un perfetto ebraico. Ha imparato la lingua della Torah lavorando in Israele. Negli anni Ottanta, Novanta e nei primi anni Duemila era normale che un ragazzo di Gaza lavorasse nelle città israeliane. In particolare, si è affezionato alla famiglia di Ehud Khefer, il suo datore di lavoro. Ha stretto una grande amicizia con Roni, il commercialista del kibbutz Hulda. Dopo il 7 ottobre non si sono più visti, ma hanno continuato a sentirsi.

La diffidenza della moglie di Roni verso i palestinesi che hanno lavorato in Israele è un sentimento diffuso?

Gli esempi citati sono bolle di convivenza che rischiano di scoppiare. La diffidenza della moglie di Roni è un atteggiamento molto frequente. La propaganda ha dipinto tutti gli arabi che lavoravano in Israele come dei complici del 7 ottobre. La mentalità è questa, ci si è incattiviti e nel governo israeliano prevale l’estrema destra.

L’estrema destra israeliana quanto è appoggiata dalla popolazione civile?

Gli ultraortodossi stanno aumentando, ma non per un’adesione ideale. La verità è che le famiglie ortodosse hanno una media di sei figli l’una, motivo per cui questa comunità diverrà sempre più numerosa e forte.

Ci vuol parlare della maledizione dell’ottava decade?

È una sorta di leggenda che poggia su basi storiche: gli israeliani, nella loro storia, non hanno mai governato un loro stato per più di ottant’anni e nel 2018 scocca l’ottantesimo anno dello stato israeliano moderno sorto nel 1948. In effetti, all’interno di Israele le divisioni sono radicali ed il rischio di un’implosione non è così remoto. Peraltro, anche i nemici di Israele hanno sempre parlato di questa “maledizione”.

A proposito della politica interna israeliana, Netanyahu ha recentemente chiesto al presidente israeliano Isaac Herzog di ottenere la grazia ne processo per frode e corruzione in cui è coinvolto da diversi anni. Come andrà finire?

È il primo tassello per l’uscita di scena di Netanyahu, ma non è così sicuro che se ne vada. Io penso sia difficile. Certo le elezioni che dovrebbero esserci nell’ottobre 2026, con lui o senza di lui saranno molto diverse.

George, il cameraman con cui ha lavorato dal 2021, uno dei due milioni di arabi che vivono in Israele, le ha detto che in questa guerra tutti hanno perso. È d’accordo?

Questa guerra ha radici lontane per cui è ancora più devastante. Chi ha perso sicuramente sono coloro che speravano in una possibile convivenza tra israeliani e palestinesi.

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