Guerra del Kippur, quando vinse la diplomazia

Il 6 ottobre di cinquant’anni fa i paesi arabi sferrarono un attacco micidiale a Israele distratta dalla festività religiosa più importante. Dopo tre settimane il cessate il fuoco, complice Kissinger

Cinquant’anni fa, il 6 ottobre 1973, cadeva in Israele la più importante festa religiosa dell’anno: quella detta dell’Espiazione, in ebraico Yom Kippur. Una di quelle giornate in cui la società semplicemente si fermava per osservare una solennità senza pari. A sei anni di distanza dall’ubriacante vittoria militare contro un’ampia coalizione di Paesi arabi che avevano invano tentato di “ributtare in mare gli ebrei”, perfino l’esercito aveva abbassato un po’ troppo la guardia: la Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, si pensava, aveva dimostrato che la superiorità israeliana sul campo fosse semplicemente una certezza. Che nessuno schieramento arabo avrebbe mai potuto rappresentare una minaccia seria. Lo pensavano anche quel 6 ottobre, ma fu un grave errore di sottovalutazione.

In quei pochi anni, nel mondo arabo, erano cambiate tante cose. Anwar el-Sadat, il presidente di quell’Egitto che aveva subito l’umiliazione più cocente nel ’67, covava un forte desiderio di vendetta e si appoggiava - in un contesto di guerra fredda - a interessati aiuti sovietici; in Libia era salito al potere il colonnello Gheddafi, fortemente anti israeliano e anti occidentale; in Sudan l’ascesa di un altro estremista come Nimeiri si era sommata a quelle dei due esponenti del partito di stampo nasseriano Baath, Hafez el Assad in Siria e Saddam Hussein in Iraq. Insomma, si era saldato un nuovo aggressivo fronte anti israeliano, la cui pericolosità a Tel Aviv tendevano a ignorare.

La scintilla

All’inizio di ottobre, Sadat ritenne che fosse giunto il momento di agire. Avvisò in segreto Mosca delle sue intenzioni (e Brezhnev si guardò bene dall’informare Nixon alla Casa Bianca, con il quale in teoria dall’anno prima era ufficialmente impegnato a collaborare per raffreddare ogni potenziale minaccia d’incendio a livello globale) e la mattina del 6 colse di sorpresa gli israeliani distratti dal Kippur con un assalto alle sponde orientali del canale di Suez, che lo Stato ebraico controllava dal giugno del ’67. L’azione era coordinata con Assad, le cui truppe attaccarono contemporaneamente le alture del Golan, strategico territorio siriano che pure Israele aveva conquistato con la guerra dei Sei Giorni.

Successo insperato

Il duplice attacco a sorpresa ebbe, soprattutto sul fronte sud, un successo che andò perfino al di là delle speranze degli stessi attaccanti. Per qualche giorno le forze corazzate egiziane avanzarono nel deserto del Sinai, mentre gli israeliani non riuscivano a reagire adeguatamente con l’aviazione. Il ruolo degli aiuti militari forniti a Sadat dai sovietici (che il raìs del Cairo aveva ricattato facendo ben capire che se non avesse ricevuto tutto ciò che pretendeva si sarebbe rivolto agli americani) si rivelava molto importante, ed ebbe un effetto decisivo a livello anche psicologico: il mito dell’invincibilità israeliana parve infranto, e per qualche giorno lo fu per davvero. Il momento magico per il fronte arabo, però, durò poco. Ripresisi dalla sorpresa e dallo choc dell’umiliazione, nel giro di una settimana gli israeliani seppero non solo fermare l’avanzata nemica, ma anche organizzare un deciso contrattacco.

Mentre l’esercito dello Stato ebraico impegnava le avanguardie egiziane nel Sinai, truppe d’assalto non solo raggiunsero il canale di Suez, ma riuscirono a varcarlo e a stabilire sulla riva opposta una testa di ponte talmente solida da arrivare a minacciare la stessa capitale nemica. Si era però, come s’è ricordato, in un contesto di guerra fredda tra Stati Uniti (alleati strettissimi di Israele) e Unione Sovietica, che appoggiava anche strumentalmente le rivendicazioni dei Paesi arabi più estremisti. Così, anche se da una parte i sovietici arrivavano a minacciare un intervento diretto sul campo e dall’altra gli americani rispondevano decretando lo stato di allerta generale delle loro forze, alla fine gradualmente furono le diplomazie delle due superpotenze a prendere in mano la situazione.

A spingere in questa direzione era anche un altro fattore: l’annunciato blocco delle esportazioni di petrolio verso l’Occidente - Stati Uniti inclusi - da parte dei grandi produttori arabi (all’epoca assolutamente dominanti sul mercato globale) a sostegno della causa anti israeliana. Grande protagonista dello sforzo diplomatico americano fu l’allora segretario di Stato Henry Kissinger (sì, lo stesso che ancor oggi, a cento anni compiuti, si impegna in prima persona, da privato consigliere, a contenere le asprezze del confronto con la nuova superpotenza rivale degli Usa, la Cina), che sfruttando i contatti aperti sia con Tel Aviv che con il Cairo riuscì con fatica a ottenere il cessate il fuoco (27 ottobre) e solo nel maggio del ’74 un vero armistizio.

La “guerra del Kippur” era finita con un sostanziale successo militare di Israele, che recuperava tutte le sue posizioni arrivando perfino a minacciare la capitale siriana Damasco. Qualcosa però era cambiato per sempre: grazie all’arma del petrolio e al potente effetto anche psicologico che il ricatto dei distributori chiusi ebbe per esempio anche in Italia (chi ha una certa età ricorda il significato della parola “austerity”), l’Occidente si trovò costretto a cedere su posizioni di principio. Era aperta la strada per la restituzione di territori all’Egitto in cambio di una pace vera con Israele. Quella pace che pochi anni dopo fu stipulata davvero da Sadat e che gli costò la vita - per singolare coincidenza - quasi nell’anniversario dello scoppio della guerra del Kippur: il 5 ottobre 1981 cadde assassinato da un estremista islamico egiziano.

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