Gli Stati Uniti in crisi e i nuovi assetti del mondo: intervista a Lucio Caracciolo

Direttore di Limes In America è cambiata la società, con un aumento degli abitanti musulmani, e l’attenzione per Israele ora è diversa. In Russia Putin verso l’ultimo mandato Tra le potenze emergenti c’è anche la piccola Svizzera

Il 2024 sarà e in parte è già stato, per le poche settimane che si ha avuto modo di osservare fin qui, un anno di elezioni. E le elezioni sono o comunque ambiscono ad essere il momento in cui ci si interroga su cosa aspettarsi dal futuro, ma anche su come provare a costruirlo. Sono in definitiva momenti in cui provare a essere artefici attivi della Storia. Visto il grande numero di giornate di voto che si susseguiranno nei prossimi mesi, da un capo all’altro del mondo, disegnando nuovi equilibri geopolitici - o ricalcando quelli già confermati - abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, di accompagnarci in una “rassegna” guidata lungo i mesi complessi che ci aspettano. L’intervista è stata realizzata in occasione della visita di Caracciolo a Como per l’evento, organizzato dal Rotary Club Como Baradello, dal titolo “Svizzera, la potenza nascosta”. L’evento è stato anche l’occasione per lanciare le attività del Limes Club Como.

Gli Stati Uniti in crisi e i nuovi assetti del mondo: intervista a Lucio Caracciolo. Video di Toppi Martina

Cercando di tenere un orizzonte di eventi il più vicino possibile, qual è, secondo Lei, il Paese che di qui a giugno sarà indispensabile tenere d’occhio?

Senz’altro l’America e non solo perché è il Paese più importante al mondo, ma anche perché è un Paese in crisi identitaria e strutturale e molto di quello che accade nel mondo deriva da questa crisi. Deriva cioè dal fatto che c’è la percezione che si sia liberato dello spazio perché, a causa di questa crisi, gli americani si occupano sempre più degli affari di casa loro e sempre meno del resto del mondo. E questo è evidentemente un fattore, in termini sistemici, di disordine.

Addentriamoci allora nelle elezioni americane, che si svolgeranno nel novembre prossimo ma che hanno una lunga fase di campagna elettorale a precederle: qual è lo Stato o il personaggio americano che potrebbe sorprenderci per quanto riguarda l’esito del voto?

Prima di tutto, secondo me, le elezioni americane sono notevolmente sopravvalutate, nel senso che c’è più continuità che discontinuità malgrado la crisi nel mondo e negli Stati Uniti. Quella tentazione di “retranchment” - gli americani la chiamano così - ovvero di chiudersi un po’ nel proprio giardino, non deriva da Trump o da nessun altro, ma solo da una crisi americana. Se proprio vogliamo parlare per presidenti, come piace a noi italiani, questa sensazione deriva dalla fine della presidenza Bush Jr, nel 2007, quando venne pubblicato il rapporto sull’Iraq che spiegava come fosse stato un fallimento, così come la guerra al terrorismo. Se prendiamo gli ultimi due anni di Bush, tutto il periodo di Obama, poi di Trump e di Biden, ci rendiamo conto che c’è una certa continuità: Biden non ha rovesciato la politica di Trump. Fatta questa premessa, credo che la cosa più interessante di qui a giugno non sia l’esito delle primarie, quanto la possibilità che emerga in campo democratico un’alternativa a Biden, o meglio che Biden sia costretto ad accettare l’idea che sia qualcun altro a sfidare quasi certamente Trump. Non sarà assolutamente Kamala Harris; c’è chi dice che potrebbe essere Michelle Obama, anche se di fatto sarebbe al terzo mandato, ma qualcun altro io credo ci possa essere. Se così non fosse, se la sfida fosse tra Biden e Trump, le possibilità di Biden sono, a mio avviso, ridotte. In ogni caso, non cambia il mondo per questo, a mio avviso.

Spostiamoci allora verso il Medioriente, dove comunque c’è in gioco moltissimo oggi per gli interessi degli Stati Uniti. E partiamo dall’Iran: ci aiuta a capire come sta agendo e qual è la sua strategia in questo momento?

La strategia dell’Iran è quella di sempre. L’Iran è un impero che ha una radice molto profonda, anche culturale, non solo geopolitica, e che vede sé stesso come centro di un sistema che va almeno dall’Afghanistan occidentale, diciamo da Herat, fino a Beirut, in Libano, passando per l’Iraq e per la Siria, con prolungamenti verso Israele e Palestina, tramite i rapporti con Hamas, e poi i famosi Houthi di cui tutti parlano ma che sono un’entità abbastanza autonoma.

L’Iran ha bisogno di Israele come Israele ha bisogno dell’Iran: sono i rispettivi nemici perfetti, ovvero quei nemici che ti legittimano e ti creano la possibilità di costruire una tua immagine, in questo caso di “anti- Iran” o “anti-Israele”. Il paradosso, da un punto di vista culturale e non solo, è che in tutta quell’area d’influenza che abbiamo appena detto, il Paese più tendenzialmente filo-ebraico e anti-arabo è proprio l’Iran.

Biden è intervenuto per la prima volta in Israele in maniera molto diretta con sanzioni rivolte a quattro coloni israeliani, come interpreta questa decisione che costituisce, per quanto riguarda i rapporti tra Usa e Israele, un primato?

Sta emergendo la divergenza di interesse tra Israele e America: questi due Paesi sono più che alleati, sono quasi parenti, ma non serpenti. E negli ultimi tempi i loro rapporti sono peggiorati per ragioni oggettive e soggettive. Quelle soggettive derivano dal fatto che il primo ministro di Israele è in realtà uno dei capi del partito repubblicano americano e con Biden vige un rapporto di reciproco disprezzo che spesso poi può avere un’incidenza nelle decisioni politiche; per quanto riguarda i dati obiettivi, l’America non vuole farsi coinvolgere troppo in Medioriente, Israele invece ha bisogno che l’America sia quanto mai coinvolta. Se non altro per ragioni militari, nel senso che senza il supporto militare e l’intelligence americani, Israele avrebbe dei problemi. E poi perché non avendo amici e alleati nella regione, Israele ha bisogno di questa protezione esterna e invece, come dicevo, gli americani hanno altri problemi in mente.

Quindi agli americani sta bene questo allontanamento?

C’è un problema interno all’America, nel senso che c’è la famosa “lobby israeliana”, certo, ma quello che colpisce ora è che nella diaspora ebraica americana stanno emergendo sempre più posizioni divergenti su questa crisi e non solo. Pertanto quello che una volta era un asset più o meno stabilito ora non lo è più. C’è anche una componente araba e musulmana, non solamente araba, in America che ha una sua rilevanza anche numerica e quello che una volta era scontato, ovvero il fatto che l’America stesse con Israele, adesso non più così ovvio.

Crede che i due Paesi si “lasceranno”?

L’America non può mollare Israele, tantomeno viceversa, però non si sarebbe mai potuto immaginare che gli americani potessero infliggere delle sanzioni personali a degli israeliani, come è successo . È una decisione pesante. Dal punto di vista dell’immagine e della propaganda a livello globale poi è Israele che sta perdendo. È piuttosto clamoroso, considerando come è iniziata questa crisi e cioè con il massacro del 7 ottobre...

La popolazione araba americana è molto numerosa in alcuni Stati importanti, per esempio il Michigan. Che influenza avrà questo sulle elezioni?

Tutte le mosse di qui a novembre sono in ogni caso calibrate sul voto, da parte di Biden e i suoi. Se però il presidente dovesse ogni volta calibrare la politica estera sulla quantità di elettori in un certo Stato, diventerebbe matto, quindi non sopravvaluterei questi numeri.

Altre elezioni importanti sono state quelle di Taiwan e se ne è parlato moltissimo: abbiamo fatto bene o abbiamo sopravvalutato un po’ questo Paese?

Taiwan ha un peso contemporaneamente sempre più autonomo e sempre più strategico. Più autonomo perché negli ultimi dieci e vent’anni si è costruita una sua propria identità, sempre più taiwanese e sempre meno cinese - anche se formalmente si chiama Repubblica di Cina, ma di fatto è Taiwan. Ha messo tutte le sue uova nel paniere americano, anche perché molti altri non ce ne sono, per evitare di essere risucchiata dalla Cina. Allo stesso tempo, per motivi economici e di relazioni personali e famigliari, la connessione di Taiwan con la Cina resta fondamentale e questo impone razionalmente il mantenimento dello status quo: il fatto che si tratta di uno Stato indipendente che non può dichiararsi tale. Questa cosa per noi pragmatici “mezzo svizzeri e mezzo lombardi” pare una follia assoluta, ma lì siamo in un altro mondo e la faccia vale più di ogni altri cosa.

Che conseguenze avrà la vittoria a Taiwan del partito guidato da Lai negli equilibri tra Cina e Stati Uniti?

Queste elezioni hanno dato una vittoria al partito filo-indipendentista, che poi in realtà è filo-indipendentista fino al punto di non dichiararsi tale, anche se Lai, il candidato che ha vinto, è storicamente più scatenato di chi lo ha preceduto. La cosa importante però è che Lai in Parlamento non ha la maggioranza e quindi questo limiterà la sua libertà di azione e consentirà alla Cina, se può, di avere una politica un po’ meno squilibrata.

Elezioni ancora di là da venire sono quelle in Russia: è vero che stiamo parlando meno della crisi tra Russia e Ucraina? E le elezioni in Russia, per quanto dall’esito scontato, possono cambiare qualcosa sul fronte della guerra in corso alle porte dell’Europa?

A me non pare che ci sia tutto questo disinteresse nei confronti della Russia. Le elezioni in Russia sono abbastanza scontate come esito, nel senso che Putin verrà riconfermato per quello che molto probabilmente sarà il suo ultimo mandato. Quello che sarà interessante vedere, al netto delle manipolazioni che ci saranno che però non credo saranno straordinarie, sarà il grado di consenso, ovvero quanti voti riuscirà a prendere Putin, e poi leggere le differenze interne allo spazio federale russo. Dico questo perché quelli che stanno morendo nella guerra in Ucraina non sono giovanotti di San Pietroburgo o di Mosca ma vengono dalla Siberia, dal Caucaso, sono la bassa forza dell’impero. Uno dei motivi per cui Putin non può permettersi una guerra a 360 gradi è proprio perché una mobilitazione generale sarebbe difficilmente digeribile per l’opinione pubblica. Quindi vedere come si orienteranno i giovani, ma non solo, può essere interessante.

Dobbiamo iniziare a pensare che l’Ucraina entrerà a breve nell’Unione europea?

La mia impressione è che l’ingresso nell’Unione europea per l’Ucraina non sia né per domani né per dopodomani. Il tema più urgente è quello di fornire all’Ucraina i mezzi finanziari - e non solo - per potere sopravvivere anche nell’immediato dopoguerra, sperando che la guerra abbia un termine di cessate il fuoco rapido. Stiamo parlando di un Paese che è completamente fallito sotto ogni profilo, cioè dipende completamente dagli aiuti finanziari esterni e dagli aiuti militari esterni, e che ha perso un terzo dei suoi abitanti da quando è diventato indipendente, per fortuna molti dei quali profughi, che oggi sono all’estero. Se dobbiamo, come io credo, aiutare l’Ucraina a rimettersi in piedi, dobbiamo pensare più alla sostanza che alla forma, anche perché ho visto che ci sono calcoli per i quali se l’Ucraina entrasse nell’Unione europea questo significherebbe uno stanziamento di bilancio di 186 miliardi di dollari in sette anni. Se poi questo dovesse trascinare con sé anche la Georgia e i paesi balcanici che battono alle porte dell’Unione Europea, superiamo i 200 miliardi e non riesco a immaginare da dove possano uscire fuori.

“Limes” ha dedicato l’ultimo numero alla Svizzera, è il secondo su questo Paese. Cosa vuol dire che la Svizzera “non è quello che sembra”, come si legge nel volume, e perché è importante parlarne?

È una potenza nascosta. Noi italiani abbiamo una percezione molto labile e superficiale di cosa sia la Svizzera e uno dei motivi che ci ha spinti a fare questo volume è proprio questo: rendersi conto che la Svizzera è per noi un Paese molto importante. Intanto perché ci confiniamo, poi perché se guardiamo tutte le classifiche, per esempio dal punto di vista economico, industriale, finanziario, del sistema educativo anche di alto livello, o della capacità di influenza geopolitica che la Svizzera ha nel mondo come abilità di funzione e di mediazione dirette o indirette, è tra i primi dieci paesi del mondo. Le sue dimensioni, dal punto di vista demografico e territoriale, sono modeste ma questo non vuol dire che non sia invece capace di avere influenza. Quando parliamo di Russia e Ucraina, la Svizzera ha avuto un ruolo e ha ancora un ruolo di dialogo e mediazione che altri Paesi non hanno, perché ha una sua tecnica. Ha quella che sarà definita una sua “meccanica fine” nel negoziato, che si è formata negli anni. È un Paese molto più pesante di quanto possa sembrare e poi c’è un aspetto nascosto: non ha nessuna voglia di mostrarlo.

Non vuole cioè far vedere la sua potenza?

Ha come un istinto che la porta a giocare nella categoria superiore rispetto a quella che normalmente gli verrebbe assegnata, tra i Paesi del mondo, che è una tecnica brillante perché ti assumi meno responsabilità e hai al contempo potere.

Un altro recente numero di “Limes” invece è stato dedicato all’intelligenza artificiale, perché occuparsene in ambito geopolitico?

La bellezza dell’intelligenza artificiale è che dentro ci puoi mettere tutto quello che vuoi: è un termine talmente generico e abusato che ha una pregnanza euristica veramente modesta. Ciò detto, vediamo l’impiego di strumenti di intelligenza artificiale nel campo dell’intelligence per la raccolta di dati, tramite algoritmi più o meno orientati, e una delle cose che cerchiamo di mettere in rilievo su Limes è l’impossibilità di ottenere delle analisi pregnanti ricorrendo ai modelli matematici. Il tentativo di sovrapporre il metodo scientifico alla realtà umana, secondo me, non produce buoni risultati, se non quelli che ci possono compiacere. Questo è un problema dal punto di vista della capacità di analisi dei laboratori strategici. Quando si parla di intelligenza artificiale si parla di robot, armi più o meno autonome, capacità tecnologiche che fanno la differenza nell’armamentario militare dei vari Paesi. I timori legati all’intelligenza artificiale sono dovuti al fatto che, se uno non sa di cosa parla, può vedere in questo contenitore “intelligenza artificiale” davvero qualsiasi cosa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA