Cambiare segretario? Meglio cambiare il Pd

Solo i veri cultori di Paolo Villaggio potranno ricordare il “Tozzi fan” con il ragioniere proiettato nella storia nel ruolo, suo malgrado, di kamikaze giapponese durante la seconda guerra mondiale. Forse lo rammenteranno i tanti aspiranti segretari del Pd, un ruolo davvero sconsigliato a chi persegue l’obiettivo di una vita serena. Enrico Letta è l’ennesimo leader a finire nel tritacarne dei dem. Dal 2007 anno in cui Walter Veltroni fondò il partito di cui assunse per primo la guida, sono stati una decina gli sventurati che hanno occupato quella carica. Tra loro anche nomi “pesanti” come quelli di Pierluigi Bersani, Matteo Renzi, Dario Franceschini e Nicola Zingaretti. Tutti costretti, nemmeno dopo troppo tempo a gettare la spugna. Altro che il vecchio Pci da cui in parte discendono i dem e in cui il segretario restava in carica a vita o quasi.

Nonostante si tratti di un lavoro pericoloso e di certo precario, sono in molti a volerlo fare anche dopo Enrico Letta. Ci sono il presidente e la vice dell’Emilia Romagna: Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, i sindaci di Bari , Enzo Decaro e, Pesaro, Matteo Ricci ,e Firenze, Dario Nardella,, l’attuale vice segretario del partito Giuseppe Provenzano, l’ex ministro Paola De Micheli e altri che, per il momento, tengono le carte coperte.

Viene da chiedersi però se sia davvero il caso di cambiare il segretario, al di là delle evidenti responsabilità di Letta nella sconfitta, o non sia meglio cambiare il partito. Certo, dalle parti dei Dem quando si parla di congressi, primarie ecc… è come se fosse Natale, tutta una festa per baloccarsi in strategie, esercizi di autoreferenzialità estrema, trenini sulle note di “Brigitte Bardot Bardot…” per poi incoronare il vincitore annunciato e, subito dopo, cominciare a segargli le gambe della poltrona.

Invece forse sarebbe il caso di interrogarsi sul senso di un partito che seppure abbia governato il paese dal 2011 a oggi, salvo la parentesi del Conte Uno , un senso non sembra averlo. Chi può dire quale sia la linea del Pd? Un aspetto che è emerso in maniera drammatica nella campagna elettorale appena conclusa in cui il partito è riuscito solo a demonizzare l’avversario senza far conoscere in maniera incisiva agli elettori quali erano le sue proposte, al di là della fantomatica “agenda Draghi” che non è proprio un modello che piace, visti i risultati del voto.

Per rifarsi al celebre motto di Nanni Moretti riferito a Massimo D’Alema, ci si aspetterebbe che il Pd dicesse qualcosa, anche non necessariamente di sinistra, ma con quella chiarezza che fin qui è mancata. Un bagno all’opposizione può anche far bene, ma non basta. Così come non sarà sufficiente un congresso se prima non si avrà il coraggio di guardare dentro il partito e riempire quel grande vuoto di elaborazione politica che si intravede tra le risse interne che sono la specialità della casa. Quella del Pd poteva essere una bella idea, peccato che non sia mai stata realizzata in maniera compiuta. Eppure ci sarebbe bisogno di un partito in grado di rappresentare e far convivere le culture riformiste trovando una sintesi efficace e non quella Babele mostrata finora. Nei Dem non manca la qualità del personale, lo si evince anche dal fatto che il partito esprime il 70% dei sindaci dei Comuni italiani. E quando si sceglie il primo cittadino, si sa, la persona conta più dell’appartenenza. Poi però tutte queste doti finiscono annegate nel magma che sembra avvolgere il Nazareno. Sarebbe il caso di partire da qui e magari di mettere da parte certi retaggi di un passato che non vuole saperne di passare, ma continua a pesare. Altrimenti lo spazio politico che tuttora occupa il Pd rischia di essere fagocitato da altri soggetti. E non è detto che sia un bene,

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