Uno degli aspetti più spassosi della politica italiana, di destra e di sinistra, è la sua fedeltà - granitica, assoluta, inscalfibile - al modello Nando Mericoni.
Il celeberrimo personaggio interpretato da un grandioso Alberto Sordi nel film di Steno “Un americano a Roma” è un ragazzotto di Trastevere talmente infatuato dal mito a stelle e strisce da vestire all’americana, camminare all’americana, parlare all’americana, anche senza sapere una parola di inglese, naturalmente, e mangiare all’americana, pur con esiti contraddittori - “maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo… maccarone! Io me te magno!” - da diventare la macchietta del quartiere con tutte le sequenze fin troppo note al grande pubblico. Il solito Sordi. Il solito italiano. La solita Italietta, talmente burina e vitellona da aggrapparsi con piglio ferino a qualsiasi mito esotico arrivi dal mondo, specialmente dagli Stati Uniti, ma non solo, anche con l’America latina mica si scherza, pur di evadere dalla cappa di noia e di provincialismo alla quale si sente condannata. Con esiti esilaranti sul fronte del costume, disastrosi su quello della politica.
Bene, la fragorosa elezione del nuovo sindaco di New York, il giovanissimo, musulmanissimo, socialistissimo e, diciamoci la verità, demagogissimo Zohran Mamdani, che contro ogni pronostico ha spazzato via il ridicolo candidato repubblicano e il bollitissimo democratico moderato Andrew Cuomo, assestando un ceffone a due mani a Trump - e regalandogli su un piatto d’argento la più scontata delle campagne elettorali: “io sono il buon senso, lui è un comunista!” – ha fatto ripiombare la sinistra, a tal proposito ci sono alcune dichiarazioni di Schlein e compagni davvero comiche, in uno dei suoi vizi più profondi e più grotteschi. L’esterofilia a tutto spiano. Il feticcio del Papa straniero. Il mito dello Zio d’America. L’eroe dei Due Mondi che indica la via, traccia il solco e spazza via il regime autoritario che vige nella repubblica delle banane. Siamo alle solite: “Meloni, m’hai provocato e io ti distruggo!”. Uozzamerica! come direbbe Nando Mericoni. O anche “Noio vulevam savuar l’indiriss” alla Totò e Peppino a Milano. Che risate. Che malinconia.
Non c’è niente da fare, il fascino delle facili infatuazioni rivoluzionarie è connesso al Dna della sinistra italiana, popolata, come ricordato in un pezzetto strepitoso su “Il Foglio” di qualche giorno fa, da un infinito numero di Madame Guévary, tanto salottiere quanto antisistema, che proprio come l’eroina di Flaubert, non hanno alcuna intenzione di invecchiare con mariti - e alleati - grigi e noiosi come Prodi, Zingaretti, Gentiloni, Gualtieri e alla disperata caccia del loro amato Rodolphe, quello che gli farà finalmente vincere le elezioni. Oggi è Mamdani, che è sciita, flotillero, antisionista e leggerissimamente (come direbbe Fantozzi) Pro Pal, e quindi di gran moda. Ma prima di lui Tsipras e prima ancora Zapatero e prima ancora Lula, Chavez e il subcomandante Marcos, senza fare il torto di dimenticarci degli ottuagenari barricadieri Sanders e Mélenchon, tutti statisti di gran vaglia messi in mostra per dimostrare l’eterna tesi che le elezioni non si vincono al centro, ma a sinistra. O forse meglio, che le elezioni si vincono all’estero, ma non in Italia. Dove, infatti, si perdono sempre.
Ma non è finita. Perché così come da una parte si ergono i maestri di pensiero delle Madame Guévary, allo stesso modo, dall’altra, svettano i miti del socialismo riformista. Vogliamo parlare di Prodi, che alla fine degli anni Novanta andò a battezzare a New York nientepopodimeno che l’“Ulivo mondiale”? E di D’Alema, che scimmiottava John Kerry, che avrebbe di certo battuto Bush junior alle elezioni (e infatti…), delle affinità elettive di Veltroni (un altro che faceva l’americano senza sapere l’inglese) per Obama? E di Renzi per Clinton e Blair, prima di approdare a Macron? E di Zingaretti per il portoghese Antonio Costa? E della Schlein per Kamala Harris (Kamala Harris chi?), per Pedro Sanchez e per tutti coloro che fossero coerenti con questa ansia paesana e provinciale di stringersi alle braghe di un feticcio straniero per credere e far credere di essere pure loro, i nostri piccoli leader da strapaese, affidabili e vincenti?
Per l’amor del cielo, non che a destra siano messi meglio. Anche se lì, come da tradizione, la si fa fuori dal vaso con grande scioltezza: Salvini sulla Piazza Rossa con la maglia con la faccia di Putin (risate!), Sangiuliano con il cappellino “Make Naples Great Again” sulla pelata (risate!), la Meloni attovagliata con Trump, Orban e Le Pen (non si ride del presidente del consiglio!), i vari capetti della destra italiana nell’adorazione postuma del colto, intelligente e povero Charlie Kirk (del quale la maggior parte di loro non conosceva neppure l’esistenza, prima che lo ammazzassero come un cane) o di quel clamoroso cialtrone pregiudicato di Steve Bannon o del parafranchista spagnolo Santiago Abascal.
Ma l’elenco potrebbe continuare, quasi all’infinito. Perché pure lì, proprio come a sinistra, non ce la fanno proprio a non accaparrarsi i personaggi del mondo e a macchiettizzarli a uso interno. E sapete perché c’è questa smania americanizzante ed esterofilizzante in salsa maccheronica? Perché lì fuori, nel vasto mondo, succede tutto, di buono e di cattivo. A Roma, chiunque governi, non succede mai niente. Vince sempre l’immobilismo immobile della perpetua immobilità ministeriale. Di tutto il caos che governa il nostro pianeta impazzito non c’è nulla che possa smuovere un paese vecchio, decrepito, popolato da anziani pensionati e prepensionati nell’assegno dell’Inps e, prima ancora, nell’anima. Gente che borbotta, che mugugna, che spettegola ma che, sostanzialmente, dorme. E vive di rendita, grande o piccina che sia. Che noia l’Italia di Meloni. Che noia l’Italia di Schlein. Vuoi mettere il prossimo incontro di wrestling fra Trump e Mamdani, tra il demagogo e il demagogo e mezzo? Meglio correre a prendere i popcorn.
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